Metti una sera a Monte Porzio

Un gruppo di lettura di Monte Porzio, nella provincia di Pesaro e Urbino, mi ha invitato a un incontro dopo aver letto La meccanica dei gesti. Un invito gentile che mi ha improvvisamente riportato sul pianeta lontano della scrittura, che ho temporaneamente abbandonato per quello dell’amministrazione: due pianeti che non riesco a far convivere, per ora, dato che entrambi hanno un clima a dir poco totalizzante.

Sono andato a Monte Porzio quindi due giorni fa, accompagnato da mia sorella Lorenza, dato che insisto a non possedere una patente. Siamo arrivati presto, abbiamo cenato e chiacchierato, e ci siamo presentati nella sala del Consiglio Comunale alle 21, ora dell’appuntamento. Ci ha accolto un giovanissimo e simpatico sindaco, che poi, giustamente, è andato a fare altre cose.

La serata è iniziata alle 21 e 15 circa, David, l’organizzatore, un signore estremamente gentile, ha aspettato affacciato alla finestra che arrivassero tutti i partecipanti, una ventina di persone con il romanzo in mano, per lo più donne o, meglio, tutte donne tranne uno. Ho fatto diverse presentazioni nella mia vita, anche se pochissime di questo romanzo per via dell’incarico di Assessore (e chiedo scusa qui al mio editore fantastico, già che ci sono), ma era la prima volta che mi capitava un gruppo di lettura. Avevano letto, erano curiose di me e soprattutto dei personaggi, da dove venivano, chi erano, la bambina cosa faceva prima, cosa farà dopo il romanzo, perché quel personaggio si comporta in quel modo…

E’ stato bellissimo ritrovarmi con i personaggi che ho inventato per il romanzo, e con la bambina alla quale mi sono così affezionato che non avrei mai voluto terminare questo libro. Ma è stato bellissimo anche ritrovarmi con venti persone curiose, attente, delicate, che hanno prestato attenzione prima alle righe che ho scritto, poi a quello che ho detto l’altra sera.

Infine, è stato bellissimo ritrovare una parte di me che ho deciso di trascurare per fare quello che sto facendo, ma che pulsa nelle mie vene forte più d’un legame di sangue.

Pamarasca

i naufragi e la barcaccia

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Quello che accaduto alla Fontana della Barcaccia di Roma deve farci riflettere sul significato della Fontana e di tutte le presenze storico-artistiche non a Roma o in Italia, ma nel mondo, e sull’assurda indifferenza che coglie la maggior parte della popolazione mondiale di fronte alla rovina, spesso violenta, di tali presenze.

Alcune delle città più belle del mondo, e per belle intendo anche in grado diraccontarci la storia dell’umanità attraverso gli strati dalle quali sono composte, cadono a pezzi sotto rivolte e guerriglie, vere e proprie guerre civili, progressiva incapacità di prendersene cura, vandalismi. Per me, che ho avuto occasione grazie al mio migliore amico di passarci alcuni giorni, simbolo di questo scempio è Damasco: pensare che tutta una serie di strade, di luoghi, di spazi urbani e di spazi sacri, di segni dell’umanità, di percorsi millenari non esistono più perché devastati dalla furia bellica ancora oggi, non mi da pace. Ma certo, queste sono cose sempre accadute.

Non sempre però è accaduta la sostanziale indifferenza nei confronti di questa perdita. Si sente l’offesa, ma non si percepisce il dolore.

Oggi, in effetti, la cronaca di queste perdite riflette la predominante filosofia del consumo. Questo significa che anzitutto si tiene conto del numero: dei morti, delle bombe, dei giorni, dei feriti, dei turisti che mancheranno, degli arrestati: al di fuori della pretesa (impossibile) di una onnipotenza della misurazione quantitativa, non siamo in grado, sembra, più di andare. E se il danno va valutato quantitativamente, il secondo passo è ovviamente quello di contabilizzarlo economicamente. Questo è sacrosanto e doveroso, purché non ci distolga da un elemento fondamentale: quello che non avremo più, cioè la scomparsa di un segno della nostra storia e della sua funzione, che è la costruzione della nostra identità.

Questa è una cosa che interessa sempre meno.

Il fatto che una moschea, una fontana, un quadro non si possano effettivamente “consumare” (prendere-mangiare-espellere) ci mette in difficoltà, perché utilizziamo criteri esclusivamente legati alla capacità di consumare e di essere consumati, alla durata di un consumo, al costo di un consumo, al lasso di tempo che passerà prima di voler consumare qualcosa d’altro.

Dove mettiamo quindi queste cose che perdiamo, ma che d’altra parte non avremmo mai potuto consumare? Al massimo, riusciamo a metterle nel novero delle “cose che ci permettono di attirare in qualche modo consumatori che consumano qualcosa d’altro”. Molto, molto difficilmente riusciamo a metterle in uno spazio mentale dove teniamo la nostra qualità, quello che non è misurabile, quello che ci definisce.

Ora, facciamo un esperimento e pensiamo, davanti all’immagine ad esempio della Fontana del Bernini, a cosa significhi quella fontana non solo all’interno della vicenda storico-artistica del mondo. Affiorano davanti ai nostri occhi milioni di persone che per secoli l’hanno affiancata, vi si sono seduti, bagnati, l’hanno interpretata e considerata in ogni epoca in maniera diversa, migliaia di famiglie che si sono fatte fotografare con quella fontana alle spalle e ora tengono appeso al frigorifero quella polaroid sbiadita, migliaia di studenti di pittura che l’hanno ritratta pensando – sognando – che si trattava di un esercizio propedeutico per avvicinarsi ad essere artisti veri, milioni di insetti che vi si sono posati e di batteri e di micro organismi che si sono generati in quelle acque, litri litri e litri di acqua che l’hanno abitata, acqua erogata grazie al lavoro di milioni di mani che nel corso del tempo hanno aperto e chiuso rubinetti in qualche anfratto della roma antica, e magari centinaia di viaggiatori del Grand Tour che si sono fermati a pensare se scriverne, o tenere per sé l’immagine della fontana all’alba, o al tramonto, e milioni di baci e litigi e di scelte d’angolazione da parte dei fotografi… Come una persona, ma con molti, molti anni in più, la fontana è depositaria di una qualità che sintetizza tutti gli incontri che ha fatto.

Ma noi non ci pensiamo.

Sono sempre stato contrario alla protezione delle opere urbane nel senso della cristallizzazione, della musealizzazione forzosa, della scomparsa del loro ruolo nella vita cittadina: me lo ha insegnato un grandissimo storico dell’arte, Franco Barbieri, e sono ancora convinto che l’opera debba vivere all’interno delle dinamiche urbane, non dentro una teca infrangibile che le impedisce di comunicare e di trasformarsi, e che le città non debbano mai smettere di essere città. Ma il problema non è nell’opera, come, a volte, il problema non è nel malato ma nell’idea di malattia e di cura che si ha. Il problema è nel fatto che noi siamo sempre meno in grado di leggere la qualità preziosa di quanto ci circonda e ha circondato i nostri cugini, zii, nonni, amici, vicini, meno vicini, altri come noi, una parte insomma dell’umanità che ci compone. Sappiamo contare, ma non sappiamo rac-contare. Diventiamo sciatti, e questa sciatteria contagia anche il nostro modo di intendere l’arte e la bellezza, la memoria e la storia. Così, quando un manufatto viene distrutto, pensiamo sia meno importante di altre cose, e siamo incapaci di provare dolore, vero dolore, nel vederlo infranto. Così, di fronte a un manufatto, perdiamo il rispetto per il suo valore artistico, e per le persone che lo hanno pensato, realizzato, ma anche popolato di sensazioni ed emozioni. Eppure, l’opera dell’uomo è proprio quella, non altra.

Se un giorno perdessimo del tutto la cognizione di quel che significano i segni che ci circondano – cognizione che ancora si legge nell’empatico sguardo della persona fotografata – allora non avremo più coscienza di quello che siamo, perché la storia ci conferisce identità, e la storia ha bisogno di segni. Saremo esseri che nascono, consumano, muoiono.

Pamarasca

 

 

Maestra

marisa

Marisa Saracinelli, amica di famiglia, mi preparò all’esame di maturità. Ricordo con sconcertante nitidezza i pomeriggi passati nel suo studio di via Rodi. La mia memoria è chirurgica sui discorsi che attraversavano i Promessi Sposi o Verga, e sui gesti. La sua mano che passava nella mia il prezioso volumetto del Puppo dedicato al Romanticismo, che non le ho mai restituito. Sta ancora nella mia, di libreria. Se i ricordo di quelle lezioni è così nitido, la ragione è semplice e sta nell’essere profondamente e autorevolmente Maestra di Marisa. Appunto ieri dicevo con un amico che lei si situa lì dove l’autorevolezza prende le distanze dall’autoritarismo: questo reso inutile da quella.

Non è tutto in quelle lezioni. Con il tempo ci siamo visti di rado. Ma ancora una volta cristallino è il ricordo della sua telefonata, all’uscita del mio primo romanzo. Naturalmente lo aveva letto, e le era piaciuto. Mi chiamava per dirmi bravo e d’improvviso sono tornato indietro di anni, per crogiolarmi nella soddisfazione di quell’encomio. Tanto hanno inciso le sue lezioni nella mia vita.

Ogni nostro incontro è stato per me intensissimo, in virtù della grandezza morale che le ho sempre riconosciuto. Ma non dimentico che a questa figura per certi versi statuaria e imbarazzante, appartiene anche uno sguardo di grande dolcezza, e di serenità nei momenti più difficili, come capita a poche, pochissime persone che hanno saputo e sanno far buon uso dei libri letti, della conoscenza, di un sapere inutile se non incontra la giusta sensibilità.

Uno sguardo dolce ed autorevole, privo di qualsiasi forma di protervia. E’ nel non ergersi che si misura la statura delle persone grandi.

 

 

A scanso di

Il post che ho pubblicato ieri ha mosso alcune polemiche. A scanso di equivoci, ci tengo a chiarire alcune cose:

1) non dubito affatto della passione, della solidarietà, della convinzione e della sincerità di tanti coinvolti, molti dei quali tra l’altro conosco e stimo da tempo. Ci mancherebbe. Quello che volevo mettere in discussione è l’opportunità di un atto eclatante e soprattutto l’utilizzo mediatico che se ne fa, a stimolare un “muro contro muro” che di fatto non esiste. Anche, da parte di alcuni, una strumentalizzazione fine a se stessa magari, solo per essere contro, senza che ve ne sia bisogno. Ci sono due approcci da tenersi contemporaneamente riguardo un problema: il primo concerne l’emergenza: quante persone abbiamo cui garantire un tetto? Quali sono le loro condizioni e quale il loro stato? Quanti letti/posti/etc. abbiamo e quanti ne mancano per questa emergenza? Il secondo concerne il termine più lungo: cosa dobbiamo/possiamo fare per affrontare un problema dalle dimensioni sempre più acute e garantire diritti? Non mi sono occupato in prima persona di questi due problemi. Lo hanno fatto e lo fanno i servizi sociali, la partecipazione democratica e il patrimonio. Ne abbiamo parlato in molte sedute di giunta. Mi sembra di poter dire che il primo approccio è affrontato attraverso vari strumenti: l’aumento dei posti letto già stabilito con somma urgenza; la ricerca e il reperimento di ulteriori sedi adatte, anche eventualmente concesse al comune in locazione; gli incontri tra amministrazione e cittadini per parlare caso per caso e verificare tutte le possibili soluzioni. Questi sono gli strumenti che ho verificato di persona, poi di sicuro gli assessorati competenti ne stanno utilizzando altri che non ho avuto modo di conoscere. Mi sembra anche di poter dire che il secondo approccio è affrontato attraverso altri, vari strumenti: l’aumento dell’attenzione nei confronti di quella che viene definita povertà estrema, di concerto con gli enti finanziatori di Un tetto per tutti e cercando soluzioni aggiuntive; la destinazione ai servizi sociali di immobili del patrimonio una volta resi agibili, ivi compreso l’asilo del quale si sta parlando, proprio per l’evidente necessità di aumentare la presenza dei servizi e garantire interventi per tutti i cittadini; una specifica attenzione alla questione degli alloggi per i bisognosi, a breve, medio e lungo termine.

E’ chiaro che tutto deve essere fatto meglio, e soprattutto assieme: la partecipazione della società a questa tematica, e il lavoro politico svolto dai consiglieri, sono essenziali, così come è essenziale che i cittadini segnalino i casi, perché quando dico che si sta facendo molto non dico mica che l’amministrazione riesce ovunque e bene. Ci mancherebbe. Quello che sostengo, ed è mia personale opinione, è che non vi fosse bisogno di un gesto di rottura e che dove l’obiettivo è lo stesso allora sarebbe molto meglio perseguirlo assieme,  dato che esistono tutti i presupposti per farlo e che le poche risorse devono stimolare la cooperazione.

2) Anche posto che il gesto eclatante fosse utile– e di sicuro ne verranno fuori anche cose utili, come un ravvivarsi del confronto cittadino sul tema – e io non credo affatto che lo fosse, il “muro contro muro” mediatico che ne emerge è del tutto fuori luogo. Prendiamo pure atto che i giornali ci tengono a tenere vive le polemiche, ma il resto mi sembra strumentale ed eccessivo. Faccio alcuni esempi: il Comune si è adoperato immediatamente e di concerto con le associazioni affinché le persone coinvolte e bisognose avessero quanto di necessario, perché dire il contrario? Il Comune ha portato un volantino, un semplice foglio scritto in più lingue, nel quale si indicava la volontà di risolvere caso per caso i problemi urgenti e date e luoghi per farlo, ma non è riuscito a distribuirlo. Perché? Leggo post che accusano il Comune di assenza, laddove la cosa mi risulta seguita alacremente, specie per quanto concerne il reperimento di sistemazioni e beni di prima necessità. Così come leggo post, questi sì di vecchia politica, che ci rimproverano di non essere andati lì. Su questo ho qualcosa da dire: anzitutto, questa giunta non esattamente una giunta standard e la presenza e l’affaccendarsi di Foresi è di tutta la giunta, non di un pezzetto di essa staccato dal resto, come capita nelle giunte organizzate partiticamente; per questo, anziché fare rappresentanza, credo sia utile che siano al lavoro e presenti, chi in loco chi non, tutte le persone competenti del Comune; infine, e aggiungo una nota del tutto personale, ho pensato di passare all’asilo, per vedere cose che un po’ conosco – ho pratica sia di persone bisognose sia di occupazioni, anche se ogni situazione è diversa – e parlare di rettamente con persone molte delle quali, come ho detto, conosco personalmente e stimo. Non è certo una chiusura programmatica ad avermelo impedito, ma una serie di altre cose. Certo è che una chiusura assoluta nei miei confronti da parte di chi non mi aspettavo non ha aiutato.

3) infine, in margine ad alcuni commenti al mio precedente post, mi limito a puntualizzare su un paio di cose: a) mi spiace che si sia inteso un atteggiamento da “lesa maestà”: quello che intendevo è che c’è una “lesa comunicazione” e che non c’è sempre bisogno di una battaglia. Questo, ripeto, al netto delle buone intenzioni e della solidarietà di molti; b) peccato che chi mi conosce, anche se non bene, e sa perfettamente che non mi tiro indietro quando si tratta di simili problemi abbia cambiato atteggiamento repentinamente e preconcettualmente, e addirittura parli di “vergogna”. Ci tengo a dire che quanto ho detto è il mio pensiero e lo sarebbe stato anche se non avessi rivestito questo ruolo. Invece, ci sono persone che, da quando lo rivesto, fanno di tutto per incasellarmi in uno spazio non mio, forse perché troppo legate a un manicheismo che oggi, in sede di enti locali, non ha ragione di essere. Se avessi voluto solo discorrere, avrei continuato a occuparmi del mio blog; c) non dubito della perfetta buona fede di molti, specie di alcuni che si sono sentiti feriti da quanto ho scritto, ma che c’è chi ha in mente di tenere quel luogo per gestirlo è stato detto a una persona della quale mi fido, non me lo sono inventato. Che poi non sia il pensiero di tutti è un altro discorso; d)  tutto quello che riguarda la questione-casa è essenziale: quindi occupiamoci del problema assieme, come collettività, perché l’obiettivo è lo stesso e le questioni possono essere risolte. Non c’è sempre bisogno di scontro, anzi, oggi, nei comuni, c’è bisogno di incontro. Dove necessario, di negoziazione sulle singole soluzioni, con il coinvolgimento, è ovvio, soprattutto dei diretti interessati.

 

 

Occupiamocene

Ho avuto a che fare con le occupazioni diverse volte nella mia vita. Sono sconcertato però, oggi, nel ritrovare una forma di antagonismo o, meglio, una declinazione dell’antagonismo così estranea ai tempi, e alla realtà municipale nella quale tutti conviviamo.

 Quando abbiamo parlato dell’occupazione di via Ragusa in Giunta ci siamo adoperati perché alcune cose fossero chiare: anzitutto la posizione dell’amministrazione, in un Comune che eccelle in tutta Italia per i servizi forniti, 365 giorni l’anno, ai senza tetto e anche per la capacità di risolvere il problema casa caso per caso con concretezza, senza fare troppa retorica e senza vantarsi sui giornali il giorno dopo. Naturalmente si deve fare sempre meglio, assistere di più, tamponare le falle del sistema.  Ma aggiungo che questo Comune ha, presso l’assessorato ai servizi sociali, figure davvero speciali che hanno a cuore come poche altre le persone bisognose e non si tirano indietro di fronte a nulla, tanto meno di fronte alla burocrazia.

Allora, abbiamo detto qualche mattina fa in giunta: che proponiamo a queste persone?

 I servizi sociali hanno le risposte esatte e non sono io, in un blog personale, nel quale sono Paolo prima di tutto,  a doverle elencare: mi auguro si sia riusciti a comunicarle ai diretti interessati, nel migliore dei modi.

 Sì perché questa è la cosa strana: i diretti interessati, quelli che potrebbero usufruire dell’aiuto – sacrosanto – dell’amministrazione, non si riesce a contattarli facilmente. C’è attorno a loro una sorta di cordone antagonista, che fa da filtro, ma filtro soggettivo, barriera preconcetta.

 Diversi anni fa accadevano cose simili nella Milano che abitavo. In effetti aveva un senso, perché le istituzioni locali non andavano tanto per il sottile, ancor meno in una metropoli, e quindi capitava che i centri sociali esistenti e altre realtà estranee alle istituzioni si prendessero carico di portare la voce e di proteggere i più sfortunati. Lo facevano non sempre in maniera disinteressata, ma spesso sì, tentando di aprire gli occhi a una società che ignorava bellamente certe tragedie e ad enti pubblici che non si erano preparati per tempo, nella migliore delle ipotesi.

 Oggi, e ad Ancona, questa scelta mi pare del tutto fuori luogo, sono sincero, e chi mi conosce sa che non parlo per partito preso. Voglio spiegare i motivi della mia contrarietà:

 a)      da quei tempi molte cose sono cambiate e gli enti locali sono meglio attrezzati, e soprattutto in molti caso (uno è Ancona) più propositivi e costruttivi di fronte a simili emergenze. E’ chiaro che non avremo spesso le soluzioni ideali, ma si riesce a garantire, caso per caso, i diritti fondamentali. Un paio di esempi: se un Comune si preoccupa di alcuni nuclei familiari senza fissa dimora, e può proporre una soluzione temporanea in attesa di quella definitiva, e quella temporanea consiste nel sistemare e assistere una madre e i bambini in una struttura assolutamente adeguata da una parte e il marito/padre in un’altra struttura diversa, questa non è la soluzione ideale ma è un tetto sulla testa e una cura del bisogno che permettono di portare avanti le pratiche per una soluzione ancora migliore. O se una persona ha la necessità di un tetto e un Comune mette a disposizione non quel tetto che la persona vorrebbe, non proprio cioè nella via desiderata, nel quartiere individuato, beh, non sarà l’ideale nemmeno questo, ma è una casa, è la garanzia di un diritto che è premessa essenziale e del resto poi si parla. E anche quando non si è così bravi o fortunati, si parla. Ecco, appunto: si parla. Com’è che nessuno vuole parlare, e soprattutto vuole far parlare? Perché ci si mette a fare da cuscinetto dove di cuscinetto non c’è bisogno?

b)      Il dialogo e la disponibilità ad affrontare congiuntamente temi fondamentali come questo sono alla base del lavoro di questa amministrazione, che nell’affrontare i problemi vuole sempre migliorare: è offensivo, triste e strumentale affermare il contrario, anche perché le stesse identiche persone che lo affermano sanno di avere sempre avuto la porta aperta, di avere sempre avuto un appuntamento a disposizione e anche di più, di avere sempre avuto di fronte sincerità, atteggiamento diretto e costruttivo, al di là delle singole opinioni. La strumentalizzazione che sta dietro quello che accade in via Ragusa proprio non mi va giù, e parlo da diretto interessato perché conosco bene persone che sono nelle stesse condizioni e solo immaginare che, oltre a vivere male come so, vengono strumentalizzate davvero fa arrabbiare anche me (e aggiungo che quello che accade mette in condizioni davvero difficili i richiedenti asilo); questo al netto di carenze degli enti locali, che però, come ho detto, possono essere affrontate assieme molto meglio;

c)      Per le ragioni suddette resto avvilito dall’antagonismo per l’antagonismo, laddove non sarebbe affatto necessario. Sarò ancora più schietto. Una volta, se uno voleva autogestire uno spazio e lo doveva occupare, lo occupava, lo difendeva, e casomai poi vi ospitava delle persone che per vario motivo potevano averne bisogno. Nessuno si sarebbe sognato di usare quelle persone per occupare uno spazio che, in fondo, non è un appartamento o un condominio… ma non voglio sospettare tanta malafede. Dico solo che le cose in questo comune si possono risolvere parlando. Che una municipalità di 100.000 abitanti civili ha la possibilità di mettere in piedi sistemi di dialogo contemporanei, adatti ai tempi, e non ha bisogno né da una parte né dall’altra di persone che scimmiottano un po’ alla provinciale quanto avviene in metropoli di milioni di abitanti;

 Viviamo in una strana società, che è cambiata tantissimo in pochissimi anni. Mario Giorgetti Fumel, in un bel libro sulla precarietà, ha inquadrato esattamente il cambiamento e ha sottolineato che, oggi, c’è la necessità che i cittadini, e in special modo i giovani, sacrifichino una fase della loro vita, quella della “ribellione” e accettino di istituzionalizzarsi prima possibile, cioè di dialogare costruttivamente con le istituzioni e anche di farne parte. E’ questa la chiave, secondo lui, di una nuova politica e di una nuova società. Da parte mia, aggiungo che questa svolta può partire proprio dai municipi, dai centri medio-piccoli come quello in cui viviamo. D’altro canto, è ovvio, le istituzioni devono de-istituzionalizzarsi in sincrono, altrimenti non vale. Noi lo stiamo facendo, e la cosa è davanti agli occhi di tutti. Dov’è chi dovrebbe camminarci incontro? Perché così tanta gente continua a godere nell’immaginare un muro lì dove c’è una porta?

 Mi dispiace accertare che se quello che sta accadendo ha un senso, questo senso è strumentale, non so quanto volontariamente. Strumentale al godimento del singolo che premette l’antagonismo persino al tentativo di dialogo, un antagonismo incapace di rinnovarsi nonostante tutto, e strumentale a chi preferisce usare chi ha bisogno come scudo o come bandiera, anziché prendersene cura e aiutare la collettività a farlo.

Okkuparsene.

 Ho avuto a che fare con molte occupazioni nella mia vita. Con questo genere mai.

Progetto Mole

Sabato si è svolta presso la Mole Vanvitelliana una conferenza stampa aperta ad alcuni soggetti istituzionali per illustrare i progetti architettonico e culturale dedicati al Lazzaretto di Ancona. Questo perché il Ministero ha firmato qualche settimana fa una convenzione che finanzia la ristrutturazione dell’ultima ala rimasta dell’edificio, quella che porta in alcuni spazi la firma dell’architetto Nervi.

La Convenzione nasce dal fatto che il Comune di Ancona, prima del nostro arrivo, ha superato assieme a pochi altri la concorrenza di centinaia di altri Comuni nel Piano per le città con un progetto complessivo che riguardava l’intero waterfront e le sue emergenze monumentali. Il Ministero ha selezionato il progetto di Ancona, ma finanziando solo la parte concernente la Mole.

Dal nostro arrivo, gli Uffici dedicati al progetto si sono impegnati al massimo e anche di più per realizzare un progetto del quale abbiamo discusso in diverse sedute.

Sabato abbiamo presentato la cosa, e mi sono occupato di illustrare l’idea culturale attraverso una serie di slides. Quello che ho detto lo incollo qui sotto:

PREMESSE

Premessa 1: presentare un’idea culturale attorno a un luogo non significa calarla dall’alto: siamo nel mezzo di una fase interlocutoria in cui si indica una strada da costruire assieme a tanti soggetti. Oggi, d’altra parte, la progettazione non solo di spazi ma soprattutto di sistemi di governance è necessariamente fluida e modulare, né potrebbe essere altrimenti, visto che lo spazio urbano non è tanto una somma di mattoni quanto una somma di persone.

Premessa 2: il riuso degli spazi urbani è un tema centrale oggi. I contenitori ci arrivano dalla storia e da una modernità che li ha ottimisticamente affastellati, un metodo dal quale è bene non farsi contagiare. Consideriamo questo spazi quali opportunità e partiamo dalle loro caratteristiche e dai limiti strutturali, architettonici, ma anche economici e sociali per intervenire creativamente dentro e su di essi.

SLIDE 1: GLI OBIETTIVI

Quali sono gli obiettivi che ci poniamo?

a)      La qualità artistica: il Lazzaretto di Ancona ha un dovere etico, direi, di ospitare iniziative ed eventi di qualità indiscutibile.

b)      La socialità: vogliamo prevedere un luogo sempre aperto, con attività e utenze diversificate, capace di attirare giovani, famiglie con bambini, appassionati di cultura ma anche no.

c)      La sostenibilità: dobbiamo costruire un discorso economicamente sostenibile attorno a un edificio che, da questo punto di vista, appare estremamente critico.

Un presupposto è essenziale: è assurdo pensare che un edificio di tanta forza, bellezza, complessità e maestosità sia un edificio di Ancona e per Ancona. La domanda cittadina non basta e bisogna essere capaci di attirarne altra.

SLIDE 2: LA NARRAZIONE

Si tratta di un edificio dalle caratteristiche uniche. Ha grande forza, e gli spazi sono al tempo stesso distinti e comunicanti: ispirano il senso stesso di una narrazione. Sembra importante partire quindi da quello che si ha. Da quando sono assessore, ho sentito decine di proposte culturali per la Mole. Per meglio dire, ho sentito decine di proposte culturali che, al momento di identificare uno spazio, hanno pensato alla Mole. Si tratta di un procedimento contrario a quello che vogliamo fare: non è possibile forzare un’idea all’interno di un contenitore per sfruttarne la bellezza o l’importanza. E’ invece opportuno partire dalle caratteristiche del contenitore e costruire una storia che lo renda unico anche sul piano dei contenuti.

SLIDE 3: QUELLO CHE ABBIAMO

Cosa abbiamo attualmente?

a)      il Museo Omero, uno dei quattro Musei italiani finanziati dal Ministero, che è un unicum a livello nazionale e internazionale;

b)      una sezione di sale espositive straordinariamente belle e particolarmente (ma non esclusivamente) adatte a mostre plastiche/installazioni/performative. Sale che possono senza dubbio rappresentare il contenitore d’eccellenza per le attività espositive regionali;

c)      una bellissima sala congressi/auditorium, sempre più utilizzata ma dalle potenzialità ancora parzialmente inespresse;

d)     un’ala che sarà restaurata con il Piano per le città e che ha particolari vincoli architettonici;

e)      un progetto di Distretto Culturale Evoluto, Adriatic Innovative Factory, dal respiro internazionale e capace di intersecare mondo del lavoro e mondo della cultura in chiave turistica e di opportunità.

SLIDE 4: QUELLO CHE CI CIRCONDA

Bisogna ridisegnare alcuni parametri socio-economici e culturali.

–          Parametri filosofici, per così dire: abbiamo ereditato una cultura del consumo illimitato che ancora ci permea e che rappresenta un’assurda fantasia di immortalità. Per uscirne è necessario riportare l’attenzione al corpo, a rapporto con gli altri, al dialogo con l’esterno, al concetto di limite quale risorsa e non impiccio, alla materia quale elemento costitutivo della nostra vita.

–          Parametri economici: l’Italia, e regioni come la nostra in particolare, vantano un tesoro ampiamente riconosciuto dalla recente letteratura, la mentalità artigiana, il saper fare, inteso come spirito prima che come konow-how materiale. Si tratta di una risorsa economica fondamentale, che attinge alla cultura della bottega e che oggi può costituire una fonte primaria.

–          Parametri artistici: la contaminazione, la messa in rete, il lavoro collettivo, lo scambio, le ibridazioni. Il mondo dell’arte vive mutazioni strutturali, organiche, del suo stesso dna. E’ necessario viverle e prenderne atto trovando anche però il collegamento tra questo oggi e l’arte tradizionale, attualizzando i concetti di museo, di opera, di intervento urbano e sociale, di soggetto-artista.

 +SLIDE 5: LA FILIERA

Dalla somma di quello che abbiamo e del mondo che ci circonda e permea nasce l’idea di costruire alla Mole una filiera che sia in grado raccontare il rapporto creativo tra uomo e materia, tenendo fermi gli obiettivi che ci siamo proposti: qualità artistica, socialità, sostenibilità.

Il primo elemento della filiera è quello artistico tout court ed è costituito da:

a)      il Museo Omero, inteso come unicum e come collezione di arte plastica e multisensoriale dalle grandi prospettive di crescita;

b)      le Sale Espositive principali, che devono gradualmente essere capaci di offrire il meglio delle esposizioni del territorio e di attirare una domanda sovra cittadina e sovra regionale, in un’ottica di internazionalizzazione. All’interno della filiera, queste Sale privilegeranno, ma non in maniera esclusiva, le arti plastiche e materiche;

c)      un collegamento tra la Mole e il resto della città segnato da interventi artistici (sculture, installazioni, anche temporanee ma continue) che attenui il carattere insulare dell’edificio e renda conto a tutta la città della sua effettiva vicinanza;

d)     il possibile coinvolgimento di specifiche attività didattiche artistiche istituzionali (Accademie, istituti etc.).

Il secondo elemento della filiera è rappresentato da design e sostenibilità:

a)      spazi espositivi dedicati alla storia e alle dinamiche del design;

b)      spazi espositivi riservati, anche a rotazione, a operatori commerciali legati ai concetti di design, sostenibilità, arredo d’arte, materiali ecologici;

c)      ambienti per workshop e laboratori;

d)     particolare attenzione all’oggetto e alla sostenibilità nel concepire gli arredi dell’intero edificio.

Il terzo elemento della filiera è rappresentato dall’artigianato artistico:

a)      spazi espositivi, anche a rotazione, per operatori;

b)      spazi espositivi e laboratoriali ed eventi legati ai fenomeni contemporanei legati all’idea di materia e oggetto: i Makers, l’Handmade;

c)      laboratori, corsi, workshop.

Il quarto elemento della filiera è legato all’artigianato in funzione della didattica e della socialità:

a)      laboratori dedicati alle famiglie e ai più piccoli;

b)      spazi per giochi manuali e fisici per i bambini;

c)      luoghi di passeggio, frequentazione, allestiti in maniera dinamica, organizzati per poter essere trasformati; spazi di ristorazione, wi-fi in tutto l’edificio, attività varie.

Il quinto elemento della filiera è quello che riguarda lo “scarto”:

a)      spazio espositivo e laboratoriale dedicato al riuso creativo dei materiali;

b)      didattica sul riciclo

SLIDE 6: LE IBRIDAZIONI

Pensare a una narrazione non significa rinchiudere uno spazio così ricco di potenzialità all’interno di una gabbia concettuale. Bisogna considerare una serie di ibridazioni, ovvero di attività che popolano lo spazio rimanendo a lato della narrazione principale, senza esserle seconde per importanza. In particolare:

a)      la funzione congressuale: abbiamo una meravigliosa e grande sala che ha ampi margini di miglioramento e alla quale saranno affiancate aule per i congressisti, spazi di lavoro, bar etc.;

b)      la funzione legata agli spettacoli: la Mole resta uno dei centri pulsanti della proposta artistica, teatrale, di danza e musicale, letteraria, filosofica etc. della città, secondo un principio di commistione e cooperazione fondamentale;

c)      Adriatic Innovative Factory: la Mole ospita il progetto di Distretto Culturale Evoluto Adriatic Innovative Factory, con capofila la Camera di Commercio, che costituisce una finestra straordinaria verso il mondo dell’Adriatico e un’ancora per Ancona capitale della Marcro-regione adriatico-ionica.

d)     La funzione di svago e ristorativa, che deve integrare le varie funzioni dell’edificio secondo principi di ergonomia e km 0.

SLIDE 7: GOVERNANCE E SOSTENIBILITA’ ECONOMICA

E’ un grande e bellissimo edificio, e contiene un grande progetto. Perché il progetto sia sostenibile bisogna pensare:

–          che il tutto sia in grado di attirare domanda esterna alla città: non ci troviamo in una metropoli e dunque il Lazzaretto di domani deve essere un magnete capace di attirare forze creative e pubblico fruitore;

–          che vi siano anche fonti di sostentamento interne al progetto stesso.

Da questo punto di vista ci sono buone pratiche in Europa – e in Italia – alle quali ispirarsi e fondamentale è concepire una governance ibrida: soggetti differenti, con missioni differenti (sociali, economiche, culturali) possono essere spinti a una coesistenza che è la sola possibile, oggi, per la gestione di spazi pubblici tanto complessi.

Faccio alcuni esempi:

la Kaapeli di Helsinky ha una gestione pubblico-privata che ha generato una società ad hoc la quale gestisce gli affitti di parte degli spazi finanziando le attività culturali valutate da una specifica commissione; una cosa simile accade alla Friche di Marsiglia.

Un caso particolarmente interessante è la Chocolate Factory di Londra, dove la Municipalità ha creato una struttura per lo sviluppo artistico locale, che funziona anche da agenzia sia in entrata che in uscita di artisti.

Le Officine Grandi Riparazioni di Torino concedono in locazione una considerevole percentuale dei loro ventimila mq ad attività selezionate.

Spazio Grisù di Ferrara concilia l’aspetto artistico con l’industria legata alle performance e al design e si propone come prima Factory creativa dell’Emilia Romagna. Per farlo, ospita imprese legate al mondo della comunicazione e del design.

Credo che, nel nostro caso, sia possibile ipotizzare

–          un aspetto istituzionale (Museo, Sale espositive, Spettacoli, Adriatic Innovative Factory)

–          un aspetto privato legato all’esposizione artigianale e di design

–          un aspetto privato che possa svilupparsi attraverso l’affitto di locali ad imprese che abbiano certe caratteristiche (imprese giovani, di co-working, legate al mondo della creatività)

–          un aspetto didattico legato ad Accademie o istituti similari

–          un aspetto sociale con la messa a disposizione della città di uno spazio multiforme, adatto alla fruizione da parte di tutti

Le prassi che ho visitato/studiato dicono che la governance migliore è quella ibrida, in questi casi: un soggetto dinamico che abbia al suo interno l’istituzione, capace attraverso di altri soci di partecipare a reti anche lontane nello spazio, ma in grado di portare produzioni e situazioni importanti (i soci non devono, nell’era della tecnologia, necessariamente trovarsi in loco, o essere localizzati fisicamente, penso a circuiti artistici, fondazioni artistiche internazionali etc.), che dia spazio al mondo associazionistico coinvolgendolo nella gestione e ugualmente a quello imprenditoriale con particolare attenzione alle imprese giovani e legate alla creatività. Il tutto, puntando a un sostentamento economico che è possibile, come dimostrato da numerose esperienze nazionali ed internazionali.

Traspaio

Quando sono diventato assessore ho pensato subito che sarebbe stato difficile. Beh, lo è. Non ho pensato però, subito, quanto sarebbe stato appassionante. Lo è anche di più. E non per una questione di lusinghe, o di potere (tsé), o altro. Ma perché si sta in una posizione assolutamente panoramica e si guarda come un sarto il tessuto dalla distanza giusta per vederne gli intrecci: quelli già esistenti e quelli possibili. In campo culturale, questa è una meravigliosa prospettiva.

Ora che sono passati cinque mesi, e credo almeno due, trecento incontri con chi canta, balla, recita, scrive, crea origami, rimesta cioccolata, sposta piante, coltiva, indaga, scruta, studia, vorrebbe ma non può e viceversa, avevo in mente di scrivere una bella relazione perché le cose delle quali ci stiamo occupando negli assessorati di mia competenza sono davvero tante. Ho iniziato due o tre volte, interrompendomi sempre: non riuscivo a rendere la complessità di ogni singola questione, se non imbarcandomi in un dettagliare che avrebbe richiesto ore, e pagine e pagine. Soprattutto, non riuscivo a rendere la passione, la voglia, il desiderio dietro ad ogni questione.

Mi riprometto quindi, gradualmente, di sviscerare almeno le questioni fondamentali e di renderne conto a chi ha voglia di leggerne, ma una per una, sì da poter guardare tra le pieghe, e poter dire ok, questa parte è fatta, questa si sta facendo, questa non è fatta e le ragioni sono le seguenti. Inizierò dai problemi impellenti, dalle questioni urgenti, con post che non riusciranno ad essere del tutto esaurienti, ma ci proveranno. Cercherò di farne uno a settimana. Ma non garantisco il rispetto dei tempi.

Ridurre la cosa a un solo, lungo post, mi è risultato impossibile. Forse, persino sbagliato.

Ma qualcosa voglio dire lo stesso.

C’è grande ambizione in questa amministrazione e c’è grande  ambizione negli obiettivi che ci stiamo proponendo sul piano culturale (anche su altri piani, ma io dico del mio, dato che mi trovo su un blog personale). Il fatto di procedere per passi graduali (io li chiamo moduli) non significa rinunciare a una visione ambiziosa, al contrario, significa mettersi nelle condizioni di raggiungerla: è il metodo che i cistercensi avevano di costruire cattedrali. Non è tempo di promesse, né di smargiassate. Non di consenso, ma di buonsenso. In Italia questa espressione – buonsenso – è sempre stata accolta con la bocca un poco storta, come un eccesso di modestia, un profilo basso ed un po’ triste. Ma non è così: oggi il buonsenso è la parola d’ordine per poter andare avanti coinvolgendo tutti, dialogando, rendendo i programmi fluidi alla luce del continuo confronto tra soggetti che la contemporaneità impone. Oggi non è tempo di Pfaff, o di Piotti: oggi è tempo di Zoff, che con un tuffo di grande concretezza sulla testa di Serginho ha fatto vincere il mondiale. C’è chi sa di cosa parlo. (e mi piace citare, qui, l’aneddoto che il mio amico Pierpaolo Casarin, figlio del grande arbitro mi raccontò davanti ad una birra: “in piena notte suona il telefono, rispondo e una voce serrata mi fa ‘sono Dino Zoff, disturbo?’ e io ‘signor Zoff, lei non disturba mai!’” … come il buonsenso, appunto).

Sul piano degli interventi culturali, concretezza significa avventurarsi tra le pieghe di una città intera – tessuto enorme, dove liscio, dove stropicciato, dove mal stirato e dove ricamato – e cercare di capire quale possa essere il suo profilo culturale, appunto, per poi mettersi a cucire un pezzo all’altro, a rammendare dove c’è bisogno, a fare gli orli e così via, valorizzando e non schiacciando. Il tutto, senza cedere alla tentazione di far prevalere le proprie passioni personali.

In questo modo, ho disegnato davanti a me, sulla scrivania, grandi insiemi: i servizi culturali di base (la biblioteca, la pinacoteca, il sistema museale, i siti archeologici, i teatri) nella convinzione che siano fondamentali sia per i cittadini sia per rendere la città appetibile e quindi turisticamente competitiva; il patrimonio associazionistico unico, diversificato e che ha bisogno soprattutto di essere funzionale alla collettività e alla contemporaneità; i contenitori, che come personaggi pirandelliani hanno una gran voglia di entrare in scena e impersonare il ruolo adatto a loro; le eccezioni nei vari settori sopra elencati (ad esempio il Lazzaretto); le persone, infine, decine e decine piene di idee, intenzioni, interessi.

Per ognuno di questi insiemi abbiamo messo paletti: i servizi di base devono essere riconquistati alla e dalla città appunto modularmente, ma pervicacemente, e con amore; il rapporto con le associazioni deve essere regolato da indirizzi che tengano conto del tempo in cui viviamo, e permettano quindi la creazione di un tessuto resistente, solido, brillante, originale; i contenitori, una delle grandi questioni dell’Occidente post-moderno, devono essere ascoltati e considerati come risorsa, non spaventare; le eccezioni, poi, devono brillare. Tutte cose che si ottengono ascoltando, proponendo e decidendo. All’interno degli insiemi, poi, ecco le questioni scendere al fondo: ognuna un sentiero di scalata, o di discesa, in cui il singolo sasso ha un suo valore ineguagliabile.

Mi sono reso conto di un patrimonio straordinario, e non lo dico per piaggeria: anzi, credo che tutte le città italiane ne abbiano, di patrimoni così, ognuna il suo specifico, e credo anche che molte delle difficoltà siano comuni a tutti i luoghi: difficoltà tecniche prima che economiche, poi però anche economiche, e difficoltà nel gestire la burrasca tecnologica nella quale ci troviamo. Difficoltà burocratiche, che certe volte ti sembra di essere in un altro mondo, e difficoltà umane, che c’è sempre più gente che ha un bisogna matto, e non di spettacoli, non di libri, ma di beni di primissima necessità.

Eppure l’ottimismo è tanto, e sensato: è un momento questo cruciale, in cui la cultura può restituire un senso di collettività perduto per decenni, in cui i giovani possono agire direttamente con le loro soluzioni sui problemi senza dover aspettare d’essere troppo anziani per farlo, in cui bisogna fare scelte. Scelte non basate su quello che piace a uno, ma su quello che serve a tutti. Con sincerità e onestà, che si è chiamati a fare quello.

Sono assessore da cinque mesi, come nel mio carattere mi sono immerso in questa cosa e ora ho calibrato la vista. Posso dire con chiarezza di ognuna delle questioni che affronto tutti i giorni. Oggi però ho voluto dirlo un po’ così, se volete sentimentalmente, perché alla fine il sentimento vale.

Pamarasca

Garage Mondo

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Il caso di Stefano Cucchi. Le giuste e belle parole di Manconi. Il brano duro, asciutto e alto di Erri De Luca. Il sarcasmo ferito di Ilaria Cucchi, la sorella. Soprattutto, il senso di ineluttabile che cala come un’ombra su una nazione intera, allenata a un’idea di potere che esclude, reclude, punisce.

Il senso di sicurezza di una popolazione inebetita dal timore dell’altro e diverso. Molti anni fa, il solito Baumann sottolineava come la funzione dello Stato si fosse ridotta ormai ai compiti di sicurezza e di protezione degli individui – spogliato di valenze economiche, sociali, simboliche, lo Stato doveva occuparsi del corpo dei cittadini, organizzandosi per preservarne il ruolo di consumatore.  Un paradosso, poiché scompare in questo modo il senso del termine stesso: cittadino. Resta l’individuo-consumatore globale circondato da una rete che protegge lui, e la sua paypal. Non è un caso, credo, se il bisogno di comunità si sia spostato entro i confini del virtuale, lì dove sembra (sembra) lontano il rischio di coinvolgimento e ferimento del corpo fisico dell’individuo.

E’ questa la filosofia che autorizza e anzi sancisce l’utilizzo della violenza da parte del potere e lo rende quasi naturale. Ineluttabile. Oggi ci offende meno un morto pestato nelle carceri che un’incursione della censura sul web.

E’ questa anche  la filosofia che ci costringe a sottolineare che Stefano Cucchi non aveva droga nelle vene, che aveva un lavoro, che si curava e sperava. A cercare cioè  in lui quelle qualità che ce lo fanno sentire meno diverso, meno minaccioso. Noi che chiediamo giustizia riusciamo a farlo meglio, se ci convinciamo della sua redenzione – prossima, o avvenuta. Che era un bravo ragazzo, uno che presto avremmo incontrato al centro commerciale, in coda, con in mano, come noi, la sua carta prepagata.

Ma questo a ben vedere non significa niente, perché chi uccide una persona resta un assassino, a prescindere dalla vittima.

E chi viene ucciso è morto. A prescindere dalla sua vita.

Timori di un ricognitore

vedova

Ho sempre sostenuto che ognuno debba fare il proprio lavoro e cercare di parlare di quello che sa. Naturalmente, le opinioni si esprimono su tutto – specie in epoca di social media -, ma se si tratta di andare un po’ più a fondo, magari uno si limita a dire delle cose che conosce (o crede di conoscere, ok).

In questi ultimi mesi mi sono occupato, su esplicita richiesta della candidata a sindaco Valeria Mancinelli, di una ricognizione sulla cultura cittadina. La cosa, naturalmente, ha significato il mio coinvolgimento nella campagna elettorale e nel sostegno alla candidata. Non sto qui però a spiegare per filo e per segno i perché o i percome di tale scelta: chi mi conosce sa che non può essere guidata da opportunismo o ambizione. E’ un discorso lungo e in qualche modo intimo, che ha a che fare con la mia vita, le mie esperienze, le mie responsabilità, la mia generazione. Magari ne parlerò, ma non in questo post. Dico solo che non ho preso nulla a cuor leggero.

Qui voglio fare un appello che riguarda la cultura, l’associazionismo culturale, la creatività culturale, la scrittura, le arti e queste cose qui che, a mio parere, possono tutte assieme concorrere ad una svolta per la città in cui viviamo: è ampiamente dimostrato che oggi la cultura è una leva sociale ed economica di grande forza. L’appello è semplice: non vedo alcuna possibilità di valorizzazione del discorso culturale in un’Ancona governata dal centrodestra. Al contrario, sono convinto, e credo di non essere il solo, che si aprirebbe un baratro, culturalmente parlando, per la città. Non sto facendo propaganda, dico le cose come stanno: al di là del mio recente coinvolgimento, sono letteralmente terrorizzato da un governo cittadino in mano al centrodestra, specie per quanto riguarda il discorso culturale. Letteralmente. Terrorizzato.

Ho toccato con mano le varie facce della cultura anconetana e le sue potenzialità, talvolta già espresse. Conosco il fermento culturale, conosco molte delle persone che lo animano. Ho chiesto il loro aiuto nella mia ricognizione, ho ottenuto tanto bene.

Ora, il sindaco della città sarà di certo uno dei due che sono arrivati al ballottaggio. C’è poco da fare.  Con una la cultura ha alcune possibilità. Con l’altro no.

Con qualcuno di diverso sarebbe meglio? Non lo so. Comunque, qualcuno di diverso ora non c’è.

Per questo, il mio sincero appello a tutti gli amici che si occupano di scrittura, teatro, musica, associazionismo, cinema, ricerca, vjing, djing, concerti, spettacoli, formazione artistica, danza, pittura, scultura, arte contemporanea, arte non contemporanea e via dicendo… il mio sincero appello è: non facciamo cazzate, andiamo ad assicurarci la possibilità di un’esistenza, che poi, se siamo bravi, potrà essere un’ottima esistenza. Senza retorica. Tutto il resto, parliamone. Dopo.

Pamarasca

L’Avvento

disclaimer: questo non è un post di campagna elettorale. L’autore lo avrebbe scritto in ogni caso.

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Il M5S dovrebbe considerare Ancona una sorta di laboratorio per il proprio futuro, e credo infatti che non sia un caso la venuta di Grillo in città a ridosso delle elezioni, per presentare in primissima persona i candidati. Dico laboratorio perché ad Ancona il M5S vive una frattura interna – o una scissione, o una divisione (alla quale non sono dentro, dunque evito di parlarne nel dettaglio).  Da questo punto di vista, Ancona è una sorta di avanguardia.

Il M5S, infatti, prevede senza dubbio il moltiplicarsi di fratture – o scissioni, divisioni etc. – : la frattura gli è endemica, dal momento che la sua unità non deriva né da principi di base, né da ideologie, né da negoziazioni e traduzioni interne che hanno prodotto una comunità. Il solo denominatore comune del M5S è una sorta di ancestrale purezza, dunque un mito, poiché, come chiarito da Gesù e da molti altri (chi è senza peccato…), la purezza è un’illusione che fortunatamente svanisce all’indomani dell’adolescenza.

Il principio di purezza è la porta principale del fondamentalismo. Questo lo sappiamo tutti e lo vediamo ogni giorno, purtroppo, nei Paesi di mezzo mondo. Esso, quindi, è in grado di rinsaldare un gruppo solo quando considerato in chiave religiosa e trascendentale. Contrariamente a ciò, il gruppo che si riunisce sotto un simile ombrello si accorgerà presto che è forato, e che l’acqua passa, così come la realtà della vita passa sulle membra e nelle menti degli uomini che diventano adulti.

In assenza di una chiave religiosa (e fondamentalista), la purezza non unisce. Semmai il contrario: letteratura e cinema sono pieni di storie in cui essa può solo imprigionare.

Per questo, il M5S  deve prevedere, per continuare ad esistere, scissioni, fratture, divisioni interne.

Tali scissioni, fratture, divisioni interne dovranno essere ricomposte in chiave religiosa: con la venuta, appunto, di un Grande Sacerdote la cui parola sarà confusa con la Legge e la cui mano riuscirà a tenere uniti tutti nel proprio palmo.

Il M5S cela infatti un curioso paradosso: esso è un movimento dal basso partorito dall’alto. Un Movimento, solitamente, cresce come un palazzo: la fase della prima negoziazione è quella in cui si mescolano gli elementi per fare il cemento delle fondamenta. In questo caso la negoziazione è in partenza subordinata alla Legge del sacerdote, e tocca quindi al sacerdote fare da cemento.

Che poi il cemento si può fare in molti modi.